domenica 24 febbraio 2008

Torcia umana in Campidoglio

A distanza di 38 anni, a cavallo fra S. Ambrogio e il Carnevale, in due capitali europee, la passione politica è divampata al punto da spingere due persone a cospargersi di benzina e darsi fuoco per le proprie idee.

Cos’hanno in comune Jan Palach, arso a Praga nel gennaio 1969, e Peinda Kebe Gotha, bruciata a Roma nel dicembre 2007?
Jan http://blog2piazze.blogspot.com/2008/02/torce-umane.html era uno studente praghese di 21 anni, attivista politico, orfano di padre e molto legato alla madre. Si diede fuoco in piazza S. Venceslao il 21 gennaio 1969.
Peinda era un’immigrata senegalese di 39 anni, moglie e madre di 3 figli, residente a Concesio (BS), attivista del Partito Democratico senegalese. È morta il 30 dicembre 2007, dopo essersi data fuoco a Roma, in Campidoglio, il 7 dicembre.

Con la comunità senegalese residente in Italia, Peinda aveva sostenuto la candidatura dell’attuale premier senegalese Abdoulaye Wade e il 7.12.07, con altri attivisti, aveva raggiunto Roma per incontrarlo. Lui non ha voluto vederla e Peinda, per protesta, per ribadire l’affermazione dei diritti degli immigrati senegalesi in Italia e la democrazia nel proprio Paese, prima si è buttata dalla scalinata del Campidoglio, poi si è cosparsa di benzina e si è data fuoco. È morta 23 giorni dopo, in ospedale. http://www.quibrescia.it/index.php?/content/view/3812/5/


Frugando fra le ceneri dei corpi e i recessi dell’animo.
Lo sguardo di Jan. La perplessità per il gesto di Peinda. Il dubbio che la storia non sia cambiata. L’incapacità di immaginare la reazione della madre di Jan, del marito e dei figli di Peinda, prima ancora che aprire insondabili interrogativi sulla Storia, suscitano in me una domanda semplice, a cui non so rispondere: come reagirei se il mio compagno, mia madre o mio fratello, manifestassero l’intenzione di darsi fuoco per cambiare il mondo?
Prima ancora che a rovistare nelle questioni politiche che hanno animato queste persone, mi soffermo a riflettere sulle loro esistenze; sul loro senso della vita e della morte, che credo molto diversi dai miei; da un lato potremmo ipotizzare addirittura una devianza, o un super-ego talmente forte da imporsi in modo dolorosamente inquietante; all’estremo opposto, potremmo riconoscere nel loro significato di “politica” l’espressione di un amore sconfinato per i propri compagni umani, concittadini o connazionali; la ricerca o tutela di un bene comune diffuso, al punto che, se assente, una singola vita cessa di avere valore, se non come strumento di protesta infuocata.


Il Festival di Sanremo fa più clamore
E traccia un solco più profondo nella memoria di milioni di italiani.
Mi lascia perplessa e incredula che Peinda non abbia bucato lo schermo, scosso il Paese.
Mischiate al profluvio di notizie battute ogni ora, le ceneri della sua protesta infuocata le ha sparse il vento invernale; 10 righe di ANSA fagocitate con purè, cotechino e panettone.
Non era idonea alla manipolazione, nè – tantomeno – alla spettacolarizzazione (intese come modalità con cui i mass media attirano, alterano e gestiscono la nostra attenzione).
A differenza dell’omicidio di Erba o di Cogne, testimonianze terrificanti di lotta a disagio, sfruttamento e spregio dei diritti umani che leggiamo in storie come quelle di Jan e Peinda, scevre di particolari morbosi, vengono provvidenzialmente superate, scartate, dimenticate. Il flusso ininterrotto di informazioni ci assuefa e anestetizza.
Una riprova? Nessuno ve ne chiederà mai conto, neppure in un quiz televisivo. Ricordare il nome di un vincitore del Festival di Sanremo, invece, può tornare utile, e persino far vincere qualche migliaio di euro.

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