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giovedì 5 aprile 2012

il Golgota in Padania

Il calcio è corrotto, la Lega pure. Qualcuno finge di sorprendersi. Come quando il Venerdì santo si tiene un'aria compunta. Lo sanno tutti che per Bossi e campioni di provincia la Pasqua è assicurata. E' la gente, in fondo, che lo vuole: chi avrebbe la forza, oggi, di gridare forte e chiaro "Barabba!"

venerdì 16 dicembre 2011

Dio è diuretico

Ve la ricordate la particella di sodio? Quella che in una pubblicità vagava in un'acqua minerale alla ricerca di un suo simile? C'è tornata in mente davanti alla notizia che gli scienziati sarebbero sul punto di trovare la particella di Dio. Non sapendo cosa significasse questa frase, ce lo siamo immaginati come quella bollicina in bottiglia, il creatore. Una vocina onnipotente, incapace però di stappare il mondo in cui s'è infilato, che ve cerca invano compagnia. E`questo, in fondo, il monoteismo. Qualcosa in nome del quale un cinquantenne affiliato a Militia Christi va al mercato a caccia di negri. Per ogni Dio che non trova un suo simile c'è probabilmente un suo fedele che non tollera i diversi.

sabato 18 giugno 2011

Gola profonda

B2B
Mancava, ieri sera a cena, B., un ragazzo pakistano.
Nell'incavo della sua assenza, un po’ guardinga, si è incuneata la signora B.
L’ho sempre osservata da lontano. Anche perché è bianca. Di un bianco flaccido, che quasi sembra flaccidità dell’anima.

La vedo spesso mangiare patatine.
Ero pronta a stupirmi. Per fulgore, intelligenza, cultura acume; dolcezza, simpatia.
Non per abissi di torpore. Neuronale.
Rugginose carie meningee.
Assoli di cellule mentali raggrinzite.

Come da galateo, annuisco – mentre B. loda la sua valle, che trovo brutta e deprimente.
Ero pronta a sorprendermi: chissà che fa, nelle sere che non viene al club? Intrepide discese in kayak lungo il Brenta? Amplessi muschiati sotto le stelle?
Contabilità aziendale. Mi annojo.
Ci metto del mio, stralciando con mani abbronzate ora spicchi di pizza ora antiche peripezie scolastiche.

Gola profonda
Quando il nome di Brunetta si insinua a metà di una coca media ci indigniamo. Poi, B. – finalmente – si lascia andare – «però, insomma, anche tutti ‘sti stranieri, ma io non lo so cos’è che cercano quando vengono qui – hanno un’idea, un’idea sbagliata – e poi, noi, la nostra democrazia, la nostra libertà, non ce la siamo mica ritrovata dall’oggi al domani – ci sono voluti anni di storia…- rutta - ecco e allora perché loro, non stanno a casa loro, a combattere per la loro libertà e i loro diritti, invece di venire qua?»

Ristò.
Rifletto.
Rigurgito.
Rutto anch’io?
Dovrei farlo. Che sono, le parole di B., se non flatulenza mentale? Rovescio di depositi fumosi, carie delle sue meningi. Marilopote significa, in greco antico, ingoiatore di fuliggine. È così che mi sento.

E mi colpisce, mentre penso a cosa dirle, l’avidità, che emerge dalle sue parole; che le mantiene in tensione.
Incespico – diplomatica mediocre – ammaino lo sdegno e ribatto «a mio parere, il vero scempio è altrove, i numeri di immigrati non sono problematici, i crimini che devastano il paese sono altri. E i criminali, non sul nostro pianerottolo; non nel nostro supermercato; sfrecciano in elicotteri e auto blu. Allora te la prendi col marocchino che sbaglia la differenziata e col negrone che ti chiede l’elemosina fuori dal Poli. Io non so, come me la caverei, se mi mettessero a vendere pizze in Bangladesh».
(E penso all’Italia come baia da cui salpare, non come approdo).
Avida. Come se democrazia e libertà fossero una torta. Da non spartire; come se l’immigrato di turno te ne togliesse una fetta.
Avida. Come se fossero un fiume: inquinabile da valori credenze abitudini lingue religioni diverse.

«Troppe vite diverse, difficoltà senza nome, regimi, schiavitù, dittature, di cui non conosciamo la portata – concludo – per erigersi a giudice delle scelte altrui». Ok. Uso parole meno scelte, ma è questo che le intendo dire.
Poi la pizza finisce. Saluti e baci. Ci si rivede a ottobre.

Kai hakahana
Kai hakahanain rapa nui, è cibo del giorno prima che sta per marcire. Kai hakahana è, stamane, sotto il sole delle 7, la cena di ieri.
Perché non ho chiesto a B. perché, anziché a pappare pizze, non stavamo sulle barricate a fare «la rivoluzione, che ci vorrebbe, anche qui»?
Ancora, mi sento sola. Offesa. Dalla spudoratezza dei ruttini neuronali di colleghi, vicini, postini, cassiere, soci delle associazioni culturali, politici, baristi, bagnini.

Caro B. avrei dovuto registrare stralci di queste conversazioni.
Farti sentire cosa dicono, quelli che ridono e parlano con te – il campo sgombro della tua ombra extracomunitaria.
Nera. Nera abbastanza da incutere silenzio. Nera come la carie meningea che ci affligge. Affezione con rammollimento e distruzione del tessuto, dovuta a agenti batterici. Al tavolo, ieri sera, c’erano altri stranieri. Ma dell’Australia e dell’Uruguay. Molto bianchi.
E poi ingegneri, informatici, infermieri – gente – come si dice - che ha studiato e che ha viaggiato.
Che la lingua franca del millennio la usa, la conosce e potrebbe accedere con essa a soglie di pensiero e informazione oltre il ponte del razzismo di cortile.

"As I write, higly civilized human beings are flying overhead, trying to kill me.
They do not feel any enmity against me as an individual, nor I against them. They are 'only doing their duty', as the saying goes." (G.Orwell)

AIUTO


sabato 17 luglio 2010

«Sì, sono arrivato finalmente in questa capitale del mondo!... Attraverso le Alpi tirolesi son passato quasi di volo... L'ansia di arrivare a Roma era così grande ed aumentava talmente ad ogni istante, che non potevo più star fermo, e a Firenze non mi son trattenuto che tre ore. Eccomi ora a Roma, tranquillo, e, a quanto sembra, acquietato per tutta la vita... Tutti i sogni della mia giovinezza ora li vedo vivi; le prime incisioni di cui mi ricordo (mio padre aveva collocato in un'anticamera le vedute di Roma), ora le vedo nella realtà e tutto ciò che da tempo conoscevo, di quadri e disegni, di rami o di incisioni in legno, di gessi o di sugheri, tutto ora mi sta raccolto innanzi agli occhi, e dovunque io vada, trovo un'antica conoscenza in un mondo forestiero. Tutto è come lo immaginavo e tutto è nuovo. Non c'è che una Roma al mondo ed io mi trovo qui come un pesce nell'acqua e vi nuoto e galleggio come la bollicina galleggia sopra il mercurio, mentre affonderebbe in qualsiasi altro fluido. Non ci deve abbattere il pensiero che la grandezza è passeggera; ma piuttosto, riflettendo che il passato è stato grande, dobbiamo acquistar coraggio per produrre anche noi qualcosa di notevole, che a sua volta, anche quando sarà caduto in rovina, ecciti i posteri a una nobile attività, come non hanno mai mancato di fare i nostri predecessori». Lo ha scritto Goethe, che non passò da Bergamo, non lo ha detto Totti. E nemmeno Asterix. I “soldini” della Padania potrebbero essere impiegati, piuttosto, per pagare le multe delle quote latte. O no? (www.ilmessaggero.it)

sabato 6 marzo 2010

nel frattempo

Genova, 5 marzo 2010 - Ribaltata in Appello la sentenza di primo grado per i 44 imputati delle violenze commesse sui manifestanti nella caserma di Bolzaneto nel luglio del 2001 a margine del G8 di Genova. I giudici della Corte d’Appello (presieduta da Maria Rosaria D’Angelo) hanno considerato tutti gli imputati responsabili civilmente per i reati per cui erano stati assolti in primo grado, nel frattempo prescritti. (quotidianonet.it)

mercoledì 20 gennaio 2010

bianco, nero e Verdone

“Io, Loro e Lara” non è senz’altro uno dei migliori film di Verdone, anzi...forse è addirittura il suo peggior film fin qui. Sarebbe un filmetto carino e niente di peggio se non fosse per il modo in cui vi si tratta il tema della prostituzione delle ragazze africane in Italia. Infatti Verdone ha avuto la felice idea di dire la sua su questa piaga che affligge le donne africane che vivono nel Bel Paese: sia quelle che si prostituiscono, sia (e soprattutto) quelle che fanno tutt’altro mestiere e che vengono comunque immaginate prostitute dagli italiani. E proprio questo preconcetto, ovvero che le donne africane residenti in Italia siano in grande maggioranza prostitute, viene candidamente cavalcato nel film di Verdone, dove l’attore e regista interpreta un missionario cattolico in crisi spirituale. A metà pellicola il prete Verdone incontra a Roma una ragazza africana proveniente dal villaggio in cui lui aveva operato per diversi anni. La ragazza lo invita a cena a casa sua, dove il missionario ritrova anche altre due giovani e belle donne natie dello stesso villaggio. Le ragazze appaiono allegre e serene, meravigliose nei loro abiti tradizionali. A casa delle donne c’è altra gente e tutti ballano e cantano insieme mentre i quattro sfogliano un album che ritrae le ragazze da bambine nel loro villaggio. Ad un certo punto le tre donne dicono di dover andare a lavorare e chiedono un passaggio a Carlo (questo il nome del missionario...). La meta era un marciapiede di periferia (seduta nella mia poltrona al cinema penso No! Verdone conferma lo stereotipo!) e le ragazze sembrano proprio volerci andare, nonostante il prete cerchi di dissuaderle e di tirarle via da lì. Ed è qui che Verdone fa pronunciare al suo personaggio parole che sono più sconcertanti dello stereotipo stesso: “Ragazze, non per fare del facile moralismo, perché tutti noi sappiamo la stima che Gesù aveva della Maddalena, ma se immigrare in un altro Paese significa venire a lavorare su un marciapiede allora era meglio se ve ne restavate a casa vostra, o no? Io sono basito dalla vostra trasformazione! Io vi ho lasciato nel vostro villaggio che eravate delle ragazze educate, perbene, rispettose delle vostre tradizioni e ora vi ritrovo senza ritegno, senza pudore e pure senza mutande! È questo il salto di qualità?”. A questo punto una ragazza risponde: “E chi manda i soldi a casa, li manti te?” E il prete: “Soldi, soldi, soldi! In Africa da mangiare ce n’era, poco, ma ce n’era. Però eravate libere, invece qui siete schiave! State facendo un lavoro da schiave!” Queste parole mi feriscono. Incomincio a pensare, a chiedermi se non sono io ad aver inteso male e poi mi dico che no, non ho inteso male. Purtroppo, Verdone nello stereotipo c’è caduto con tutti e due i piedi! E probabilmente pensa che quello che ha messo in scena lui sia la realtà! È verosimile che delle ragazze costrette a prostituirsi per vivere vadano a battere il marciapiede a cuor leggero, dopo aver fatto una festa con i loro connazionali, tutti allegrissimi e spensierati...quasi fossero delle imprenditrici di se stesse?!? E poi la predica del missionario: “eravate delle ragazze educate, perbene, rispettose delle vostre tradizioni”...perché, gli vorrei chiedere, chi si prostituisce è forse una cattiva persona? “Se immigrare in un altro Paese significa venire a lavorare su un marciapiede allora era meglio se ve ne restavate a casa vostra, o no?”...già vedo i leghisti annuire e fare proprio l’argomento per mascherare la volontà di rispedire al mittente le donne immigrate (come pure gli uomini), e non solo africane, sotto le spoglie di una “legittima preoccupazione” per il loro benessere e la loro dignità di persone. E poi “È questo il salto di qualità?”...bé, no...non c’è salto di qualità, soprattutto se si pensa che queste persone hanno percorso migliaia di chilometri, affrontato pericoli inimmaginabili, violenze e ricatti per poi arrivare in un Paese straniero e non vivere la vita che avevano immaginato di vivere. Ma di certo nessuna delle ragazze che si prostituiscono aveva il marciapiede come obiettivo, ci è stata messa o ci si è trovata per disperazione. L’unica verità che trovo nelle parole di Verdone è che queste ragazze non sono libere. Sono schiave della criminalità organizzata. Ma non solo. Se gli italiani non sono capaci di etichettarle diversamente, non danno loro la chance di essere altro nemmeno in un film, non saranno colpevoli anche loro? Non siamo colpevoli anche noi di costruire con i nostri preconcetti e le nostre etichette i destini di disperazione di queste persone? Verdone, che sa di essere seguito e amato da un pubblico trasversale, avrebbe potuto cogliere questa occasione per mostrare delle ragazze africane che ce l’avevano fatta, ragazze (come ce ne sono tante) che hanno lottato e lottano per vivere e lavorare duramente e onestamente nel nostro Paese e mantenere intere famiglie nel loro. Verdone avrebbe potuto approfittarne per rendere giustizia a tutte quelle donne africane che sono in questa condizione, ma vengono immaginate prostitute dagli italiani, troppo ignoranti e prevenuti per immaginare altro. Qualche mese fa ho conosciuto una stupenda ragazza africana. Era venuta in Italia per studiare turismo. Viveva dalle suore, a Roma, andava a scuola e lavorava per mantenersi. Faceva gli stessi lavori che fanno gli studenti italiani, la cameriera, la barista...cose così. Ma quando gli uomini romani la vedevano camminare per strada, bella com’è, la apostrofavano in romanesco, chiedendole quanto volesse. Questo di continuo. Ha smesso di mettere il mascara, i tacchi, le gonne, ha smesso di raccogliersi i capelli in treccine, non è servito. È andata via da Roma. Ora vive e lavora nel Nord-Est. In una fabbrica. Ce la fa a stento a mantenersi e ha dovuto lasciare gli studi, ma tiene duro. Persegue il suo sogno. Lei dice che è certa che anche dove vive ora la gente pensa che sia una prostituta, ma almeno non lo dice e a lei va bene così. Tornando al film, per amor del vero devo dire che ad un certo punto Verdone fa entrare in scena i protettori delle ragazze africane, le quali nel frattempo hanno deciso di ribellarsi e chiedono asilo a Carlo,che le nasconde in casa sua dove si sta svolgendo un pranzo importante, nel corso del quale le ragazze fanno la loro comparsa vestite da cameriere, per giustificare la loro presenza agli ospiti...e anche qui, aridaje! O prostitute o cameriere...è naturale immaginarle così. L’Italia sarà un Paese migliore quando riuscirà ad aprirsi agli stranieri abbracciandoli nella loro interezza e non stritolandoli in una morsa fatale fatta di preconcetti, pregiudizi, sfruttamento e criminalità. Qualche giorno fa Roberto Saviano ha detto che gli africani sono i nostri anticorpi contro le mafie, che loro si ribellano laddove l’italiano subisce, perché gli africani hanno affrontato la morte per venire nel nostro Paese a vivere una vita migliore e perciò non riescono a sopportare che l’organizzazione criminale di turno gli distrugga il sogno di una vita. L’italiano invece è assuefatto a chinare il capo e fare spallucce di fronte ad un potere illegittimo che gli usurpa tutti i diritti. Sono gli africani che ci sveglieranno, che ci salveranno e a loro Saviano ha detto una cosa bellissima: non lasciateci soli con le mafie, non ve ne andate. Loro pensavano di aver bisogno di noi, invece è la società italiana che ha bisogno di loro. I film, le trasmissioni, i TG che continuano ad incasellarli in ruoli stereotipati, rassicuranti per chi teme l’iniezione di linfa nuova nel tessuto sociale, non fanno male solo a loro, ma privano anche noi della possibilità di immaginarli altrimenti e di guardare davvero queste donne e questi uomini e chiederci “chissà che lavoro fa?”, “chissà da dove viene?” (perché anche qui dobbiamo dirlo: No, non sono tutti senegalesi! No, non sono tutte nigeriane!). Qui, dove vivo, ho sentito delle persone parlare degli “extracomunitari” (termine di per sé già odioso) chiamandoli “gli extra”. La prima volta che l’ho sentito non ho capito...”gli extra”...terrestri? Evidentemente no, mi sono detta. Poi ho collegato e ora quando sento questo termine, forse per una strategia di autodifesa o forse per deformazione professionale, nella mia testa la parola prende un accento tonico sulla “a”, alla francese. Perché in francese “extra” [extrà] è l’abbreviazione di “extraordinaire”, ovvero “straordinario”. “Il/Elle est extra”, “C’est extra” dicono Oltralpe. Ed è quello che penso io delle persone che vengono in Italia per cercare una vita migliore per sé ed i propri cari (a volte per intere comunità), che siano straordinarie. Per questo meritano che gli si dedichi qualcosa di diverso da un pensiero preconcetto.