Ieri sera mi è accaduto un fatterello – quasi un nonnulla nella dinamica e nell'economia della serata. Stavo tornando verso la macchina con un paio di amici quando, in senso opposto, ho incrociato una signora che ultimamente ho visto spesso in Piazza Fiera. È – credo – una senza dimora. Circa 60 anni, gira in sandali e senza calze anche in inverno, il viso scuro, sporco e accartocciato, l'espressione arcigna. È scomodo incontrarla. È scomodo incontrare persone come lei, e guardarle. Facilmente le scansiamo e la loro presenza suscita disagio o senso di colpa. Non occorre essere milionari, e accade anche se ci sottraiamo al circo del consumismo sfrenato. Per le scarpe che indossiamo, consapevoli che a casa ne abbiamo molte altre, e giacche, camicie, borse, mentre loro, presumibilmente, non hanno niente. Non è l'avere, credo, la parte più scomoda, quanto l'essere. Ieri sera questa signora mi ha detto una parola – che lì per lì non ho capito. Le ho chiesto di ripetere: " carità" e ha allungato la mano. Una frazione di secondo, ma ero già oltre. Un altro secondo e mi sono sentita una merda, avrei voluto fermarmi, fare dietro-front, mettere mano al portafoglio. Pur sapendo che una manciata di euro non avrebbe risolto la sua vita. E che non sono solita sciacquarmi la coscienza con un po' di monetine. Sotto le luci di natale, sono spuntate varie domande: che ne è stato di quella vita? Che le è successo per ridursi così? E quando? Perché non è "risalita"? Da cosa la protegge la scorza di pellaccia che sembra avere? Ripara dal groviglio di emozioni (che non riesco neppure a immaginare), che credo si scateni dovendo chiedere la carità? Cosa pensa? Cosa vede? Come giudica queste luci natalizie, le nostre scarpe e calze colorate?
Non ho risposte, non ho palle di natale, ma non so se avrei quelle per farle direttamente queste domande.
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