Visualizzazione post con etichetta interviste. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta interviste. Mostra tutti i post

martedì 1 novembre 2011

Intervista a un militare di professione dell'Esercito Italiano



dopo l'assaggio di qualche mese fa, in coincidenza della festa delle forze armate la Donna Cannone (e chi sennò?) vi offre l'intervista completa ad un militare italiano, che ringraziamo.

Per capire se una voce dalle stellette sia o no quella di un Ufo.


Intervista a un militare di professione
dell'Esercito Italiano

Max, 38 anni, Sottufficiale dell'Esercito. Salernitano, lavora a Napoli. 



le domande del Comandante Nebbia

CN: in che teatri è stato impegnato?
Max: Sono stato in Bosnia nel ’96, quattro volte in Kosovo tra il 2000 e il 2003 e in Iraq nel 2004.


CN: quali incarichi ha ricoperto?
Max: In Bosnia non ero ancora in servizio permanente, ho svolto per lo più servizi di guardia al nostro Compound.
In Kosovo ho ricoperto incarichi vari, dalla gestione dei gruppi elettrogeni all’interno della base e nelle varie postazioni a difesa di installazioni sensibili sparse per il territorio di nostra competenza, all’addetto agli acquisti e quindi ai contatti con i rivenditori locali, cosa che mi ha permesso di girare parecchio e di conoscere moltissima gente del posto. Mi occupavo anche della retribuzione del personale civile locale che lavorava nel nostro accampamento. Con alcuni di loro sono in contatto ancora oggi.

In Iraq, ero addetto alla Cellula S1 (Personale) ed ero in giro spesso a seguito di un mio superiore a cui facevo da interprete dall’inglese, nel corso dell’affiancamento con ufficiali dell’esercito iracheno.


CN: ha partecipato ad azioni a fuoco?
Max: Io personalmente mai, ho solo sperimentato la tensione che si generava ogni volta che si usciva dalla base.


CN: quali differenze ha riscontrato nella reazione delle varie popolazioni alla presenza di militari stranieri sul territorio?
Max:In Bosnia, la guerra era appena finita. Non c’era molta gente in giro e quelli che c’erano erano piuttosto diffidenti. I contatti più frequenti erano con i bambini che venivano a chiederci un po’ di cioccolato o qualche merendina.
In Kosovo, gli albanesi erano in genere amichevoli, la nostra presenza in qualche modo li faceva sentire al sicuro.
In Iraq, è molto difficile da definire. La situazione era piuttosto complessa, sicuramente non tutti erano contenti di averci tra i piedi.


CN: Qual è, secondo lei, il livello di preparazione medio del personale italiano nei confronti del personale di altre nazioni?
Max:Al di là di Americani e Britannici, che sono a mio parere di un altro livello, credo che il nostro grado di preparazione generale sia piuttosto buono e in grado di confrontarsi tranquillamente con gli altri eserciti della coalizione.


CN: Ci dà un'opinione sulla qualità dell'equipaggiamento e sulla sua adeguatezza nelle varie situazioni?
Max:La qualità è sicuramente migliorabile e non sempre è risultata pienamente adeguata alla situazione, ma si sa, noi italiani siamo abituati a fare di necessità virtù.


CN: Ci dà un'opinione sulla capacità delle forze armate di valorizzare l'esperienza accumulata nei teatri di impegno o se questa viene dispersa con i congedi o con l'impegno del personale esperto in funzionalità impiegatizie?
Max: Credo che la maggior parte del personale delle forze armate abbia accumulato una notevole esperienza nell’ambito dei teatri operativi e tale esperienza può tornare utile sia per indirizzare i più giovani, sia per affrontare le nuove sfide con maggiore sicurezza e consapevolezza. I congedi e i cambi di destinazione del personale esperto ritengo che non possano inficiare su tale bagaglio di esperienza, se non in minima parte.


CN: Ci dice il livello di impiego dei private contractor e il tipo di missioni affidate a questo tipo di professionisti?
Max: I contractors si occupano in genere della protezione di personaggi di spicco che a vario titolo circolano per il teatro. Sono certamente dei professionisti molto validi, ma noi abbiamo delle regole d’ingaggio ben precise, dalle quali non possiamo prescindere. Loro, probabilmente, hanno una maggiore libertà di movimento e di azione.






le domande di Poldino


Poldino: Qual è la sua canzone preferita?
Max: Risposta difficile. Ascolto molta musica, è difficile isolare una sola canzone. Se proprio devo scegliere, dico “Pride” degli U2.


P: l'ultimo libro letto?
Max: E’ un periodo che leggo più libri contemporaneamente, iniziandone uno nuovo senza prima terminare la lettura di quello precedente. L’ultimo che ho letto dall’inizio alla fine è “Io cammino in fila indiana” di Ascanio Celestini.


P: Come reagisce la gente quando dice che fai il militare?
Max: Alcuni appaiono sorpresi. Forse il mio modo di fare e di muovermi fa pensare ad altro. Ma anche il modo della gente di considerare i militari dovrebbe evolversi.


P: Ha qualche militare in famiglia, anche in pensione?
Max: No, nessuno.


P: Che lavori ha fatto prima di arruolarsi? Qual era l’alternativa?
Max: Ero iscritto all’università, Lingue e letterature straniere moderne. Ho fatto qualche esame. Nel frattempo, per non pesare troppo sul bilancio familiare ho fatto vari lavori, dal barista alla gestione di impianti sportivi. L’alternativa era continuare gli studi e tentare di trovare uno sbocco in quel settore. Forse avrei potuto, ma è andata diversamente.


P: Cosa direbbe al se stesso ventenne?
Max: Di godersi di più la vita, è un’età fantastica che non torna più.


P: Durante il vostro addestramento, per resistere, vi vengono indicati degli integratori?
Max: A me non è mai successo, né ne ho mai sentito parlare.


P: A che serve saper marciare?
Max: Nella vita in generale, a poco; nell’ambiente militare ti dà un primo input di ordine e disciplina.


P: Cos’è cambiato tra le vecchie e le nuove generazioni di militari?
Max: E’ cambiato molto, direi. La rinuncia alla leva obbligatoria ha dato vita ad un nuovo esercito di professionisti, a mio parere molto più preparati ed evoluti.


P: Siamo al 7 settembre 1943: combatterebbe a fianco dei nazisti?
Max: Credo proprio di no.


P: Combatterebbe contro di loro, due giorni dopo?
Max: E’ più probabile.


P: Che lavoro vorrebbe facesse suo figlio?
Max: Quello che più lo faccia sentire realizzato. Per me non fa grossa differenza.


P: Che cosa la società civile dovrebbe prendere ad esempio da quella che non lo è?
Max: Non saprei. Bisognerebbe prima definire il termine “società civile”. Se intendiamo in tal senso la civiltà cosiddetta “occidentale”, ha sicuramente poco da insegnare e molto da apprendere.


P: Secondo la costituzione cosa fa l’Italia alla guerra?
Max: La ripudia.


P: Saprebbe definire il verbo ripudiare?
Max: In questo caso definisce il rifiuto “a priori” di un certo tipo di comportamento.


P: Parolisi è innocente?
Max: Non saprei. Non sono in grado di giudicare a distanza. La mia sensazione è che dietro ci sia qualcosa di più del “semplice” delitto passionale.

Una cosa al riguardo vorrei però sottolinearla: questo triste episodio è stato fortemente strumentalizzato per dare un’immagine dell’esercito che non corrisponde alla realtà. Le storie tra colleghi di lavoro, clandestine o no che esse siano, avvengono in tutti i contesti, soprattutto dove si vive a stretto contatto diverse ore al giorno. Ora, il fatto che tra quattrocento ragazze, qualcuna possa vivere una storia con il proprio istruttore, mi sembra davvero poco sorprendente.


P: Le è mai capitato di votare stando al fronte?
Max: Non mi è mai capitato.


P: Ha mai pensato di fare il contractor?
Max: La cosa non mi attrae per nulla.


P: Che accademia militare ha frequentato Gheddafi?
Max: Sinceramente non ne ho idea. Suppongo un’accademia militare libica. So comunque che è stato anche nel Regno Unito.


P: Dovesse tagliare un centesimo delle spese militari su cosa risparmierebbe?
Max: Forse risparmierei qualcosina sulle mense. Sicuramente toglierei i militari dalle strade delle città italiane.


P: Tecnicamente, si può annichilire senza uccidere?
Max: Credo proprio di sì.


P: Contrario o favorevole alla tortura?
Max: Assolutamente contrario.


P: Sa cosa stabilisce l’art. 185bis del codice penale militare di guerra?
Max: Punisce eventuali condotte vietate dalle convenzioni internazionali.


P: Cosa le chiedono più spesso i famigliari quando torna da una missione?
Max: Come me la sono passata. Cercano probabilmente di farsi un’idea del mio stato d’animo e della condizione psicologica.


P: Cosa evitano di chiederle?
Max: Sicuramente non mi fanno domande “tecniche”.


P: Tra Dio, patria e famiglia cosa butta dalla torre?
Max: Probabilmente la famiglia sarebbe l’unica ad essere sicura di restare su. Non sono un gran credente e la patria è sicuramente un valore in cui ci si può riconoscere, purché non si scada in pericolosi eccessi di nazionalismo.




le domande della Donna Cannone

DC: Non crede che le morti di militari durante il lavoro siano da considerare ''morti sul lavoro'' come quelle degli operai, per esempio? E se no, perché?
Max: Credo senz’altro di sì. Il fatto che poi si dia luogo alla farsa dei funerali di Stato è solo un maldestro tentativo di pulirsi la coscienza di fronte all’opinione pubblica.


DC: Cosa si prova a vivere armati?
Max: Si vive armati solo in particolari circostanze e in determinati teatri. Non certo in patria. Dopo un po’ non ci si fa più caso.


DC: Che cosa pensa degli immigrati? E dei profughi? E delle donne con il velo in territorio italiano/europeo?
Max: Io penso semplicemente che le diversità di usi, costumi e tradizioni vadano considerate come un’opportunità di arricchimento e non come una minaccia. Ogni atteggiamento di intolleranza è espressione assoluta di ignoranza. E non lo dico per retorica.


DC: Perché ha scelto questo mestiere?
Max: E’ stata una scelta ponderata. Ero all’università e vivevo con la spada di Damocle della leva obbligatoria. Ho preferito fare domanda per due anni di ferma e percepire uno stipendio, piuttosto che un anno di leva che gravasse ulteriormente sui miei dal punto di vista economico. Poi i due anni sono diventati tre, fino a vincere il concorso in servizio permanente.


DC: Quali sono gli ''ideali'' moderni che attirano i giovani alla carriera militare? È plausibile pensare che lo facciano per ''la patria''?
Max: Probabilmente alcuni lo fanno anche per “la patria”, ma onestamente ritengo siano senz’altro una minoranza. La maggior parte vede nella carriera militare un’opportunità di lavoro e di indipendenza economica. E con questi “chiari di luna”, non è poco!



gr  az  ie







lunedì 12 settembre 2011

Voci dal sottoscala 2011: Intervista a un Sottufficiale dell'Esercito Italiano

Le Interviste Scomode Su blog2piazze

Nasce su Mente Critica nella pubblicazione del cannonico "Morto un parà se ne fa un altro" l'incontro - scontro virtuale e ideologico con Max, Sottufficiale dell'Esercito Italiano. Gli abbiamo proposto di farsi intervistare. Ecco la prima parte dell'intervista


Presentazione
Sono Max, ho 38 anni e sono un Sottufficiale dell'Esercito. Sono nato e vivo a Salerno, ma lavoro a Napoli dal 2005. Prima di allora ho svolto servizio a Persano (SA) e a Livorno. Sono sposato in seconde nozze da circa un anno e non ho figli.


In uno dei suoi commenti, ha citato Berlusconi, tradendo l'iniziale senso del termine "disadattato", che Lei attribuiva ai "reduci" dai teatri di guerra e non quindi ad una questione politica. Comunque, io non sono certamente vicino all'ambiente di centrodestra, come potrebbe sembrare scontato per un militare; anzi, le mie frequentazioni e l'ambiente in cui mi piace muovermi vanno decisamente in un'altra direzione.
 
 
le domande di Comandante Nebbia



CN: in che teatri è stato impegnato?
Max: Sono stato in Bosnia nel ’96, quattro volte in Kosovo tra il 2000 e il 2003 e in Iraq nel 2004.


CN: quali incarichi ha ricoperto?
Max: In Bosnia non ero ancora in servizio permanente, ho svolto per lo più servizi di guardia al nostro Compound.
In Kosovo ho ricoperto incarichi vari, dalla gestione dei gruppi elettrogeni all’interno della base e nelle varie postazioni a difesa di installazioni sensibili sparse per il territorio di nostra competenza, all’addetto agli acquisti e quindi ai contatti con i rivenditori locali, cosa che mi ha permesso di girare parecchio e di conoscere moltissima gente del posto. Mi occupavo anche della retribuzione del personale civile locale che lavorava nel nostro accampamento. Con alcuni di loro sono in contatto ancora oggi.
In Iraq, ero addetto alla Cellula S1 (Personale) ed ero in giro spesso a seguito di un mio superiore a cui facevo da interprete dall’inglese, nel corso dell’affiancamento con ufficiali dell’esercito iracheno.


CN: ha partecipato ad azioni a fuoco?
Max: Io personalmente mai, ho solo sperimentato la tensione che si generava ogni volta che si usciva dalla base.


CN: quali differenze ha riscontrato nella reazione delle varie popolazioni alla presenza di militari stranieri sul territorio?
Max: In Bosnia, la guerra era appena finita. Non c’era molta gente in giro e quelli che c’erano erano piuttosto diffidenti. I contatti più frequenti erano con i bambini che venivano a chiederci un po’ di cioccolato o qualche merendina.
In Kosovo, gli albanesi erano in genere amichevoli, la nostra presenza in qualche modo li faceva sentire al sicuro.
In Iraq, è molto difficile da definire. La situazione era piuttosto complessa, sicuramente non tutti erano contenti di averci tra i piedi.


CN: Qual è, secondo lei, il livello di preparazione medio del personale italiano nei confronti del personale di altre nazioni?
Max: Al di là di Americani e Britannici, che sono a mio parere di un altro livello, credo che il nostro grado di preparazione generale sia piuttosto buono e in grado di confrontarsi tranquillamente con gli altri eserciti della coalizione.


CN: Ci dà un'opinione sulla qualità dell'equipaggiamento e sulla sua adeguatezza nelle varie situazioni?
Max: La qualità è sicuramente migliorabile e non sempre è risultata pienamente adeguata alla situazione, ma si sa, noi italiani siamo abituati a fare di necessità virtù.


CN: Ci dà un'opinione sulla capacità delle forze armate di valorizzare l'esperienza accumulata nei teatri di impegno o se questa viene dispersa con i congedi o con l'impegno del personale esperto in funzionalità impiegatizie?
Max: Credo che la maggior parte del personale delle forze armate abbia accumulato una notevole esperienza nell’ambito dei teatri operativi e tale esperienza può tornare utile sia per indirizzare i più giovani, sia per affrontare le nuove sfide con maggiore sicurezza e consapevolezza. I congedi e i cambi di destinazione del personale esperto ritengo che non possano inficiare su tale bagaglio di esperienza, se non in minima parte.


CN: Ci dice il livello di impiego dei private contractor e il tipo di missioni affidate a questo tipo di professionisti?
Max: I contractors si occupano in genere della protezione di personaggi di spicco che a vario titolo circolano per il teatro. Sono certamente dei professionisti molto validi, ma noi abbiamo delle regole d’ingaggio ben precise, dalle quali non possiamo prescindere. Loro, probabilmente, hanno una maggiore libertà di movimento e di azione.






Le domande di Poldino
Poldino: Qual è la sua canzone preferita?
Max: Risposta difficile. Ascolto molta musica, è difficile isolare una sola canzone. Se proprio devo scegliere, dico “Pride” degli U2.


Poldino: l'ultimo libro letto?
Max: E’ un periodo che leggo più libri contemporaneamente, iniziandone uno nuovo senza prima terminare la lettura di quello precedente. L’ultimo che ho letto dall’inizio alla fine è “Io cammino in fila indiana” di Ascanio Celestini.


Poldino: Come reagisce la gente quando dice che fa il militare?
Max: Alcuni appaiono sorpresi. Forse il mio modo di fare e di muovermi fa pensare ad altro. Ma anche il modo della gente di considerare i militari dovrebbe evolversi.


Poldino: Ha qualche militare in famiglia, anche in pensione?
Max: No, nessuno.


Poldino: Che lavori ha fatto prima di arruolarsi? Qual era l’alternativa?

Max: Ero iscritto all’università, Lingue e letterature straniere moderne. Ho fatto qualche esame. Nel frattempo, per non pesare troppo sul bilancio familiare ho fatto vari lavori, dal barista alla gestione di impianti sportivi. L’alternativa era continuare gli studi e tentare di trovare uno sbocco in quel settore. Forse avrei potuto, ma è andata diversamente.


Poldino: Cosa direbbe al se stesso ventenne?
Max: Di godersi di più la vita, è un’età fantastica che non torna più.


a breve la 2° parte dell'intervista

mercoledì 17 giugno 2009

Intervista esclusiva a Rita Charbonnier 2°parte

Eccoci a voi con la 2° parte dell'intervista a Rita Charbonnier, l'autrice di "La strana giornata di Alexandre Dumas" (cliccate qui se vi siete persi la 1° parte...............)
DC: che cosa ti dice la gente, dopo aver letto i tuoi libri? Rita C.: Ho ricevuto diverse email di apprezzamento davvero commoventi, alcune benevole ma più prudenti; valutazioni decisamente negative o attacchi diretti, per fortuna, non ne ho raccolti. In diversi casi si è creato un vero e proprio rapporto epistolare con persone che poi ho ritrovato sul mio blog, su Facebook… alcune le ho anche conosciute, ed è stato bello ed emozionante. Per me i commenti dei lettori, espressi in qualunque forma, sono importantissimi. Sono quelli che danno un senso al lavoro. DC: e prima? Rita C.: Capita abbastanza spesso che qualcuno si piazzi su Internet alla ricerca di siti di scrittori e un po’ a casaccio, senza neanche aver capito con chi ha a che fare, mandi una email che dice: posso spedirti qualcosa da leggere? Mi arrivano richieste di questo genere persino dall’America, e dagli a spiegare che non sono di madrelingua quindi non posso valutare scritti in inglese… perché io cerco di rispondere a tutti. Comunque mi rifiuto di leggere materiale non pubblicato, in primo luogo perché non ho tempo, e poi perché è rischioso. Se un giorno dovesse uscire un mio scritto che ha alcuni tratti in comune con qualcosa che tempo prima ho ricevuto per email, sarebbero dolori. DC: come ti documenti sulla storia/epoca/ambientazioni/mentalità etc per parlarne in un romanzo? Rita C.: In tre modi: viaggiando, facendo interviste e leggendo. Per il primo libro sono stata a Salisburgo; per il secondo a Modigliana, in Romagna, alla ricerca di informazioni sul baratto di neonati che vi avvenne nel 1773; per quello che sto scrivendo sono stata a New York, alla ricerca di informazioni su un grande italiano che vi soggiornò nell’800. Negli ultimi tempi, per la verità, sto cominciando a pensare che spostarsi fisicamente non sia essenziale. Sto cercando di virare verso una direzione sempre meno storica e quindi meno soggetta alla documentazione sul campo. Le interviste hanno senz’altro lo scopo di raccogliere informazioni, ma soprattutto quello di entrare nel mondo umano delle vicende narrate. Parlare con una persona che ha avuto esperienze simili a quelle del tuo personaggio offre preziosi spunti di riflessione ed elaborazione. E anche conversare con un esperto (se è così gentile da concedere l’incontro), guardarlo negli occhi, ascoltare la sua voce può offrire qualcosa di più e di diverso dal leggere un trattato. E poi leggo… e rovino i libri riempiendoli di appunti a matita e anche a penna. Per il nuovo romanzo ho letto o riletto Jodorowsky, Clarissa Pinkola Estés, Pirandello, Jung, alcuni testi di filosofia buddista, di psichiatria, mi sono documentata sulla schizofrenia, sulla depressione post partum… DC: progetti nel cassetto - (che ci puoi rivelare)? Rita C.: Il mio terzo romanzo racconterà una storia ambientata a Roma agli inizi dell’era fascista, con alcuni richiami al secondo ‘800 nelle Americhe; vi avrà un certo ruolo l’idea della reincarnazione e sarà un’esplorazione dei temi della libertà e della violenza. Nel quarto vorrei occuparmi della corruzione e della televisione. Ma non ne sono del tutto certa. Quello di cui sono certa è che vorrei continuare a scrivere romanzi incentrati su grandi personaggi femminili, collegati tra loro. Alcuni personaggi del mio primo romanzo ritornano nel secondo, e alcuni del secondo torneranno nel terzo; vorrei proseguire su questa strada.
DC: che cosa colpisce la tua fantasia al punto da scriverci sopra un romanzo? Quali strane alchimie legano Rita Charbonnier a A. Dumas - in quest'ottica? Rita C.: Sarebbe meraviglioso pensare che tra uno dei più grandi narratori mai esistiti e la mia modesta persona vi fosse una strana alchimia… diciamo che Alexandre Dumas è per me, come per molti, un modello. La sua figura umana, inoltre, mi è simpaticissima. Per quanto si sia comportato in modo discutibile con le donne, alcuni tratti di quella che immagino fosse la sua personalità (entusiasmo per la vita, capacità di godersela, generosità) rendono perdonabile ai miei occhi tutto il resto. Inoltre, Dumas era un asso della narrativa popolare a puntate (i suoi romanzi venivano pubblicati a puntate sui giornali), e il suo metodo di lavoro può ricordare quello in uso nella sceneggiatura delle serie televisive popolari, che a me è piuttosto noto. DC: sentiti libera di aggiungere qualcosa che non ti abbiamo chiesto Rita C.: Solo una cosa: leggete “La strana giornata di Alexandre Dumas”, Edizioni Piemme, e fatemi avere i vostri commenti! Un grande abbraccio a tutti, e un caloroso in bocca al lupo per la realizzazione dei vostri sogni.

NB: Se volete essere aggiornati sulle presentazioni del nuovo romanzo, novità ed eventi vari, potete iscrivervi alla newsletter di Rita inviando una email vuota a questo indirizzo: ritacharbonnier-subscribe@domeus.it. La newsletter ha una periodicità mensile ed è possibile annullare l'iscrizione in qualunque momento, con un semplice clic. Grazie a Rita, grazie a voi per averci seguito fino qua e in bocca al lupo per i nuovi progetti editoriali. Saremo felici di poterli presentare ancora su Blog a 2 Piazze!

DC

mercoledì 10 giugno 2009

Intervista esclusiva a Rita Charbonnier

Rita Charbonnier è autrice di due romanzi. Il primo, “La sorella di Mozart” (Corbaccio, 2006) è stato pubblicato in dodici Paesi, tra i quali Austria, Germania, Francia e Stati Uniti. Il secondo, “La strana giornata di Alexandre Dumas”, è una novità di Edizioni Piemme. E’ stata attrice e cantante in teatro per diversi anni. In seguito ha iniziato a collaborare come giornalista con riviste di spettacolo, a scrivere sceneggiature e poi romanzi.
Abbiamo il piacere di avere nuovamente con noi l'autrice di "La strana giornata di Alexandre Dumas" e di soddisfare alcune curiosità...in 2 parti
DC: mi incuriosisce molto andare un po' indietro nella tua storia e scoprire come e quando è nata la tua relazione con la scrittura Rita Charbonnier: Bisogna andare parecchio indietro. Sono l’ultima di sei figli, mia sorella e i miei fratelli sono più grandi, e sono stati loro a insegnarmi a leggere, verso i quattro anni. Ho iniziato a scrivere quasi subito: poesie, raccontini, e più tardi un giornalino di quartiere. Allora i blog non c’erano. C’erano le macchine da scrivere e la carta carbone; per raggiungere la tiratura di 15 (!) copie dovevo battere a macchina l’intero giornale cinque-sei volte, perché più di tre copie carbone alla volta non venivano. Scrivere era un godimento e avrei sopportato anche di peggio; forse cercavo l’approvazione del mio ambiente, forse la soddisfazione di un’esigenza comunicativa, forse entrambe le cose. Parallelamente facevo piccoli spettacoli, massacrando i bambini più piccoli del vicinato con turni di prove da denuncia al sindacato attori; curavo la drammaturgia, l’allestimento e le musiche. DC: vorrei sapere come la scrittura si sposa con le tue altre attività professionali - in qualche modo mi sembra vi sia un fil rouge che le unisce... Rita C.: Hai colto nel segno. Anche se non faccio più teatro da un pezzo, immagino che nei miei romanzi, soprattutto nei dialoghi, l’esperienza di palcoscenico si avverta almeno un poco. Ho recitato per quasi quindici anni, in generi diversi, in contesti diversi, e ho imparato ad afferrare, e in qualche modo a prevedere, la reazione positiva del pubblico di fronte a un effetto ben costruito; quindi ho sviluppato una certa consapevolezza dell’andamento, o della scena, o della battuta che potrebbero “funzionare” (la certezza ovviamente non c’è mai). DC: che cosa ti spinge a scrivere di personaggi storici - a cui dare una valenza anche 'simbolica' o, se vogliamo, di 'parabola' di messaggio che scavalca i secoli per raggiungerci nella modernità? Rita C.:Anche qui hai colto nel segno. Non credo che i miei possano essere definiti romanzi storici classici. Io non vado a scegliere un’epoca X per imbastirci una storia il più possibile vicina alla cosiddetta realtà; cerco piuttosto di andare per temi. Ne “La sorella di Mozart” ho esplorato il tema della realizzazione personale. Nel nuovo romanzo, “La strana giornata di Alexandre Dumas”, il tema è l’identità. Se è vero che la figlia di una coppia nobile è stata scambiata con il figlio di una coppia qualunque per ragioni di eredità, di chi siamo figli? Di chi ci genera o di chi ci alleva? Quanto conta la sensazione dell’appartenenza a una famiglia nella costruzione della nostra personalità? E il nostro destino è scritto nel codice genetico? In questa prospettiva, rivendico la libertà dell’autore. Credo che cercare di aderire alla realtà storica sia una battaglia persa. Non esiste una realtà storica oggettiva. Gli storici si accapigliano quasi su tutto e anche la storiografia è un genere letterario. All’ultima Fiera del Libro di Torino mi sono ritrovata a fare una tavola rotonda con Cinzia Tani e Leda Melluso. Entrambe hanno appena scritto un romanzo su Federico II di Svevia. Tani (“Lo stupore del mondo”, Mondadori) lo dipinge come un eroe, Melluso (“La ragazza dal volto d’ambra”, Piemme) come un mascalzone. Quale delle due ha ragione? Entrambe! O Pirandello non ci ha insegnato proprio niente. Certo, ci sono cose che in un romanzo storico è meglio non fare. Non puoi sostenere che Alexandre Dumas era il nonno segreto di Hitler. Cioè, puoi anche farlo, se proprio ci tieni, ma rischi fortemente di vincere l’Oscar della Stupidata.
La copertina del romanzo (Ed. Piemme)
DC: come è iniziato il tuo rapporto con l'editoria? Ovvero - hai bussato a tante porte, hai trovato subito quella giusta - ti è venuto a ''stanare'' qualcuno? Rita C.: Ha ha ha! Qui non ti stana nessuno e soprattutto nessuno ti regala niente. Quello dell’incontro fortuito è un mito metropolitano. Qualcosa di fortuito, però, nel mio caso c’è stato. Anche se scrivevo da sempre, anche se una volta abbandonato il teatro mi ero messa a scrivere per la televisione, non vagheggiavo di scrivere romanzi; non era nei miei pensieri, se non nella forma di sogno irraggiungibile per me tapina. Nel 2000 decisi di scrivere un soggetto cinematografico sulla sorella di Mozart; mi misi al lavoro seriamente, andai a Salisburgo per le ricerche, e lì feci mente locale sul fatto che nel 2006 ci sarebbero state grandi celebrazioni mozartiane, perché sarebbero ricorsi i 250 anni dalla nascita. Questo, pensai, avrebbe potuto aiutare il mio progetto. Il soggetto vinse un premio europeo; scrissi la sceneggiatura, che suscitò interesse qua e là, anche un mezzo contratto, ma il film non quagliava. E intanto gli anni passavano e il 2006 si avvicinava. A un certo punto capii che per il film non c’era più tempo. Forse per un romanzo sì. All’epoca ero fidanzata con un giornalista inglese. Appena gli dissi che pensavo di scrivere un romanzo sulla base della mia sceneggiatura, lui mi urlò in faccia: “That’s a great idea!” E poi mi diede un ottimo consiglio: trovati un agente letterario. In Inghilterra e negli USA è una cosa ovvia, qui da noi quasi non si sa che esiste questa figura professionale. Trovare l’editore giusto è compito dell’agente, che prenderà una percentuale sugli introiti dell’autore; compito dell’autore è trovarsi l’agente giusto. Su Internet ci sono tutti i recapiti; bisogna prendere contatto, inviare i propri scritti e sperare che siano valutati positivamente. Mi dicono però che adesso molti agenti chiedono soldi (bei soldi, anche 600 euro) per valutare gli scritti. Io immagino che in tempi di crisi la gente si attacchi dove può e credo sarebbe meglio perlomeno cominciare dai pochi che ancora non chiedono soldi. Se uno ha una sommetta da spendere, forse è meglio investirla in un corso di scrittura; se anche gli insegnanti non sono dei geni, almeno avrà la possibilità di confrontarsi con altre persone che nutrono il suo stesso sogno. DC: e da scrittrice, come vedi il panorama editoriale (e scrittorio) nazionale? Ci dai un parere sia sulla piccola/media che sulla grossa editoria? Rita C.: Riguardo alla piccola editoria, come è noto anche qui c’è gente che si fa pagare dagli autori per pubblicare i libri. Questo non è tanto normale. Autori ben più qualificati di me si sono scagliati contro questo sottobosco. La situazione normale è che l’autore non paga, ma viene pagato con un anticipo sui diritti di vendita che in seguito dovrà percepire (una percentuale sul prezzo di copertina, di norma attorno all’8%. Poi ci vanno tolte tasse e commissioni di agenzia, per cui su un libro che costa attorno al 16 euro all’autore ne entra in tasca circa uno). Però adesso c’è il self-publishing; e ci sono stati casi di libri autofinanziati finiti sulla scrivania dell’editore importante, che li ha acquisiti e ripubblicati. E poi si cita sempre Proust, che pubblicò a proprie spese “Dalla parte di Swann”… in conclusione, non ci sono regole. L’unica regola credo sia cercare di capire per quale ragione si scrive, e per chi, e agire di conseguenza. Riguardo alla grossa editoria, immagino che essere Angelina Jolie offra alcuni vantaggi rispetto all’essere un’attrice magari anche più brava, ma che fatica a raggiungere il pubblico. I grandi editori hanno grandi risorse per la promozione, e soprattutto per la distribuzione – che è di importanza fondamentale. Il libro deve essere facilmente reperibile in libreria. Anche qui è un po’ come per il cinema: se il film non esce nelle sale, chi lo vede? Sì, i libri si possono ordinare, anche su Internet, ma nella maggior parte dei casi vengono comprati e letti dalle persone che li pescano in libreria. Solo la grande editoria può garantire una distribuzione massiccia e capillare.
to be continued....

lunedì 5 gennaio 2009

Due cuori e una giostra

La giostra della famiglia Faccio Gregori a Trento, dic. 2008
Fiere e feste - religiose o popolari – raccolgono da prima del Medioevo attrazioni e divertimenti: c’erano veggenti che prevedevano il futuro, come sibille, maghi e astrologi. E poi giocolieri, saltimbanchi e mangiatori di fuoco. Il loro luogo era la piazza. Oggi, che non viviamo la città e ci ammucchiamo nei centri commerciali, fiere e lunapark ci sembrano forse anacronistici: masse caciarone che ci attanagliano gola e fantasia col profumo dello zucchero filato… È così che durante le vacanze di natale ho potuto intervistare un giostraio o meglio, come precisano i diretti interessati, un esercente dello spettacolo viaggiante. È con noi Manuel Gregori con la sua accogliente famiglia.
Mi hanno addirittura invitata nella loro roulotte…Seguitemi, andiamo a sbirciare il mondo da un carrozzone! Per prima cosa, chiedo a Manuel se è un mestiere che ha ereditato dalla famiglia. Manuel: Sì, da mio padre. La famiglia è attaccata a questo mestiere da più generazioni, coi teatri viaggianti, il circo, i primi cinematografi, anche se la radice è la famiglia di mia madre – la famiglia Zamperla. È abbastanza conosciuta. A un certo punto si è spaccata in due rami: metà è andata in America e l’altra è rimasta in Italia. Quella in America lavora come stunt-men, uomini cannone, spettacoli con le macchine. Anche tempo fa su MTV si è visto un Zamperla che si è fatto male, è stato sbalzato fuori dalla rete e quello lì è un mio parente. E quindi ha una discendenza lunga. Le prime giostre erano saltimbanco, giochetti truffaldini, spilli e ci si muoveva per fiera in fiera, da festa paesana in festa paesana. Diciamo un’attività molto nomade. Dopo, già con i teatri viaggianti, è nata una vena artistica e da questi sono nate le prime rudimentali giostre. Diciamo da idee banali, come pali e catene. Comunque hanno radici profonde, antiche. La storia di queste attività è lontana nel tempo. I documenti sono pochi e rari. Abbiamo qualche libro o raccolta di famiglia - io ho visto solo qualche speciale di telegiornale sui miei colleghi e basta.
DC: Tu hai iniziato da piccolo? Manuel: Sì, mio papà era qui di Trento, di Romagnano. Ho uno zio che lavora alla Whirlpool. Mia mamma invece era delle giostre. Mio papà quando ha sposato mia mamma ha iniziato questa attività. Prima aveva un’attività di imbianchino. Nel frattempo, arriva la moglie di Manuel, con il bimbo, piccolo, che ha bisogno di tornare a casa, e quindi la famiglia mi invita ad andare con loro e proseguire l’intervista in roulotte. Il carrozzone, lo chiamano. Mi guardo intorno estasiata, in questo lungo carrozzone dorato, arredato con gusto, caldo e accogliente – La moglie di Manuel con una punta di orgoglio mi fa vedere che c’è anche la lavastoviglie.
Poi Manuel prosegue «La famiglia itinerante è molto bella – ma richiede anche molta manodopera. La famiglia di mia moglie si chiama Faccio, è una famiglia storica, borghese e benestante, ma hanno sempre lavorato sodo. E hanno sempre difeso la categoria a denti stretti. Annoverano “grandi uomini” come li chiamiamo noi. Dicevo, mio papà, dal canto suo, voleva i figli con sé – e quindi io sono andato a lavorare con lui. Il legame famigliare di solito è molto forte, anche perché il figlio tende ad affiancare il padre nell’attività. Lavorando insieme nasce un grande attaccamento. È un’avventura, eh! Una missione ardua. Io ho fatto la scuola dell’obbligo itinerante. Ho un cugino che ha fatto il liceo scientifico, giurisprudenza e persino il dottorato, ma non riesce a entrare nell’attività di avvocato, perché non fa parte della categoria. Sai, qualche laureato ce l’abbiamo anche noi, anche se è una mosca bianca». Interviene la moglie: Io frequentavo 8 scuole all’anno! Il programma per me era sempre avanti o indietro. Ero bravissima: sono passata con distinto alle scuole medie, ma poi non volevo andare in collegio, volevo stare con la mia famiglia e fare le superiori itineranti era impossibile. Le chiedo com’era il rapporto con i compagni di scuola: «Buono – risponde - Eravamo la novità, c’era sempre molta curiosità. All’inizio. Poi ti mettevano da parte. Chi più chi meno, ovvio. A volte gli adulti dicevano “bambini, sono arrivati gli zingari”!» - «Ci confondono con gli zingari! Come in tutte le comunità, ci sono i buoni e i cattivi anche fra noi – ma non si salva nessuno dalla discriminazione!» A proposito di scuola, Manuel racconta che oggi come allora, i figli degli esercenti di spettacoli viaggianti cambiano spesso scuola. Di volta in volta ricevono un attestato che ne certifica la frequenza. Ora pare stiano cambiando la normativa, forse introdurranno un esame ad hoc per i figli degli esercenti degli spettacoli viaggianti, su base annuale.

La giostra della famiglia Faccio Gregori a Trento, dic. 2008

Manuel racconta poi che ogni famiglia viene riconosciuta con un tratto – per esempio, «noi siamo geniali ma folli. Io avevo uno zio che tanti anni fa si era arricchito con i cavalli. Ne aveva comprati 200. Poi è fallito. Comunque, le grandi famiglie sono rimaste poche. Per farti alcuni nomi: Zamperla, Cavaliere, Orlando. Mio nonno era di Margone, sopra Vezzano. Era figlio di una ragazza madre. E mia nonna era cresciuta “a erba e sassi”. Anche per questo il tasso di divorzi nelle nostre comunità è molto basso; 5 su 100, per dire un numero. La famiglia diventa un corpo e un’anima. Vi si tramandano storie e leggende, oltre al mestiere. Pensa, io ho un collega che quando racconta storie che risalgono a prima del 1914 parla in tedesco. Ovviamente, non è tutto rose e fiori. Come vanno, i guadagni, con la crisi? E poi com’è, questa vita nomade – così diversa, così lontana? Lo saprete nella 2° parte.

Alcuni siti di interesse

Il superbowl del lunapark di Genova